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RACCONTANDO LA CRACOVIA DI WOJTYŁA, Parte II

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RACCONTANDO LA CRACOVIA DI WOJTYŁA, Parte II
PostPopuli - Il post per tutti

Risalgo sulla strada che costeggia il castello alla base, sul lato ovest, e passo accanto alla bella costruzione in pietra rossa del Seminario, che durante la guerra era occupato dai nazisti: nelle sue stanze Karol Wojtyła studiò e si formò spiritualmente. Giungo infine all’angolo di Ulica Kanonicza, la mia preferita. Luogo di armonia silenziosa, di colori tenui e di passi che calcano il terreno rispettosi. Qui il giovane sacerdote, e quindi vescovo ausiliario, visse dal 1951 al 1963, in due palazzi eleganti piuttosto bassi, uno dalla facciata scura e l’altro chiara. Sul secondo campeggia una sua foto. Erano gli anni della dittatura comunista, e lui si stava già distinguendo come punto di riferimento delle coscienze soprattutto dei giovani, isolate e private di luce dal socialismo reale. Arrivo fino all’angolo con Plac Marii Magdaleny. Questa si affaccia sull’antistante facciata della chiesa dei Santi Pietro e Paolo, che sembra un angolo di Roma trapiantato in Polonia. Attraverso il tranquillo quadrato e sfocio in Ulica Grodzka, col suo flusso costante di turisti e abitanti del posto, un po’ caotica e un po’ intima. Mi piace, ma al primo incrocio vengo tentato da uno scorcio di passato e di calma quasi praghesi, che si apre sulla sinistra, in Ulica Senacka. Mi immergo nella sua ombra, fino all’angolo retto dove si trova il Museo Archeologico, che mi invita ad entrare in un altro corridoio senza tempo. Sento una musica tzigana, forse proveniente da un salotto dove qualcuno si esercita, forse solo nelle mie orecchie. Là dove Senacka diventa Poselska, giardini verdi mi richiamano verso uno spazio pieno di alberi, in fondo. È il Planty, il parco pedonale dalla singolare forma ellissoidale, che corre tutt’intorno al centro storico della città: parte dal Wawel, vicino al Seminario, e corre per un tempo e uno spazio apparentemente infiniti, fino a ricongiungersi al Castello dall’altra parte, vicino all’imboccatura di Grodzka, dando alla pianta del cuore di Cracovia un contorno dalla forma di liuto. Giro a destra, procedo sul vialetto ombreggiato e raggiungo l’angolo della chiesa dei Francescani. C’è uno spiazzato, di fronte, dove finisce Ulica Francziskańska, e al numero 3 c’è il Palazzo Arcivescovile, alla cui porta il giovane Karol bussò, nell’autunno del 1942, per chiedere all’arcivescovo Adam Sapiehadi farlo entrare in seminario, allora necessariamente clandestino. In seguito, dopo la sua nomina a Metropolita di Cracovia, nel 1963, questa sarebbe diventata la sua residenza, e dalla sua finestra avrebbe spesso parlato alla gente. Proseguo lungo il Planty, passando accanto alla sede centrale dell’Università Jagellonica, quella dove lui studiava, e da una via interna raggiungo il Rynek Główny, la grande Piazza del Mercato Centrale, solenne come un valzer viennese e malinconica come un’aria di fisarmonica. Qui è tutto un incrociarsi di traiettorie di gente, tanta giovane, molta straniera, anche se l’invasione turistica, in questo periodo, non è ai suoi massimi. La vita ferve, e lo si vede dai ristoranti, dalle banche, da un bar per studenti che ospita numerosi incontri con scrittori e altri artisti e dal famoso cabaret Pod Baranami”, anch’esso luogo di libertà di espressione, per metafora e per com’era possibile, negli anni bui del regime sovietico. Questo quadrato imperfetto è come vegliato dai silenziosi testimoni del tempo che sono le facciate neoclassiche e rinascimentali delle sue case, dalle diverse tinte pastello, alternate in una successione che sa di armonia profonda. E poi, al di là della lunga e bassa costruzione color crema del Fondaco dei Tessuti, imbevuta di Est, c’è la Katedral Mariacki, con le sue due torri ineguali e il trombettiere che suona ogni ora una melodia mozzata a metà, lo hejnał, in ricordo di un lontano segnale d’allarme troncato da una freccia tartara. Allarme. Già, quello stesso che deve aver serrato la gola delle migliaia di polacchi che, nel maggio del 1981, si radunarono qui in preghiera subito dopo l’attentato al pontefice. Era la cosiddetta “marcia bianca”, dal colore di cui tutti si erano vestiti. Attraverso il largo spazio centrale della piazza, accompagnato da chiacchiere scambiate da ragazzi locali, in questa lingua affascinante in cui Wojtyła pronunciò le famose parole: Nie lękajcie się, “Non abbiate paura”. Mi siedo su una panchina, e mi rendo conto che questo luogo è imbevuto di lui. Parla al cuore, con una voce che è impossibile non sentire o ascoltare con indifferenza. Comunica ancora le sue parole, quelle che ce l’hanno fatto amare come uomo, senza quasi pensare che, incidentalmente, era anche papa. GIOVANNI AGNOLONI

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